venerdì 15 settembre 2006

LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI TRA REALTA’ E SUGGESTIONE

Molto è stato scritto sul decreto Bersani di liberalizzazione delle professioni, circa il metodo e il merito per cui non appare opportuno ripetere gli argomenti, quanto piuttosto tentare una riflessione che evidenzi come il decreto porterà di fatto, almeno per la professione forense, ad un risultato antitetico a quello che si intendeva perseguire.
Dispiace che questo provvedimento abbia le caratteristiche dell’esemplarità (cioè dell’atto con cui l’Esecutivo, nei primi 100 giorni, vuole dare un segnale di novità, specularmente a quanto fece il governo precedente il cui totem fu l’abolizione dell’imposta di successione) che non permette un dialogo ragionato, senza arroccamenti di segno opposto (nulla si cambia e nulla si discute).
Passiamo ad una rapida analisi dei punti di criticità e partiamo dall’abolizione della inderogabilità dei minimi di tariffa.
Se può apparire ragionevole l’affermazione che la sussistenza dei minimi di tariffa non è in sè segno di qualità della prestazione, è anche vero il contrario, e cioè che il minor prezzo in sè non permette l’identificabilità ex ante di una prestazione di qualità.
È difficile per la realtà professionale italiana, composta per la maggior parte da studi piccoli, come si ricava dal censimento ISTAT 2001 che indica in 600.000 le imprese attive nelle professioni prevalentemente con organizzazioni minime (445.000 su 600.000), sintetizzare nella mera esposizione del prezzo il costo necessitato per l’organizzazione dello studio (adeguamento alla privacy, investimento in tecnologia, ecc.) e per l’aggiornamento e la formazione continua.
Il vero limite della norma, però, consiste nella lesione del diritto di difesa, laddove, in materia giurisdizionale, si pone come oggettivo ostacolo all’accesso dei cittadini al processo, quindi alla tutela dei diritti, e, per altro aspetto, nella mancanza di garanzia per i non abbienti attraverso il gratuito patrocinio, ponendo così una questione di democrazia assai concreta.
In materia civile, infatti, il sistema è strutturato in modo che la parte vittoriosa, o il creditore, sia tenuto indenne, salvo motivata decisione contraria da parte del giudice, dalle spese di giustizia, rispondendo ciò, come più volte sostenuto dalla Cassazione, al dettato dell’art. 24 Costituzione.
Nell’assoluta mancanza di regolamentazione vi è il concreto pericolo che la Giustizia diventi privilegio di pochi per la possibilità di imporre al soccombente il pagamento di una parcella convenzionalmente stabilita tra l’Avvocato e il proprio rappresentato o, all’opposto, perché il Giudice, privo di riferimenti, liquidi una somma di molto inferiore a quella concordata tra la parte vittoriosa e il suo Avvocato.
Oltre a ciò si privilegiano i contraenti forti (banche, assicurazioni, grandi imprese, ecc.) che, utilizzando, come già parzialmente avviene ora (cosa nota!), avvocati convenzionati ai limiti inferiori di tariffa, possono permettersi resistenze giudiziarie strumentali nei confronti dei singoli cittadini che dovranno pagare quanto concordato con il proprio legale, aumentando così il proprio potere effettivo a scapito della collettività.
Occorre, pertanto, che almeno per le tariffe giudiziali vengano mantenuti i minimi, così da fornire all’Autorità giudiziaria i “binari”, secondo la definizione di Calamandrei, su cui indirizzare la scelta per un’equa parametrazione del costo di accesso e utilizzazione della Giustizia.
Questo corrisponde anche all’attualità di molti paesi europei, come in Francia e in Germania, mentre il richiamo all’Inghilterra è scorretto laddove non specfica la divisione delle funzioni tra solicitor e barrister: le regole più elastiche e liberali, come la possibilità di proporre assistenza legale nei supermercati, valgono per il primo, una sorta di consulente giuridico, ma non per il secondo, l’avvocato della difesa avanti alle Corti.
Appare, quindi, necessario che l’abrogazione dei minimi non riguardi le prestazioni giudiziarie degli avvocati per consentire al Giudice, al privato nel caso di recupero crediti o alla Pubblica Amministrazione l’indicazione esatta dei compensi spettanti per l’esercizio della difesa.
Lo stesso ragionamento è utilizzabile per il gratuito patrocinio, per garantire una prestazione dignitosa per gli assistiti e non un simulacro di difesa come avveniva nel passato per le difese d’ufficio gratuite.
Sempre che sia corretta l’interpretazione della norma in tal senso, appare inopportuna anche l’abrogazione del divieto del patto di quota lite che a tutt’oggi esiste tanto in Germania che in Francia.
Invero, il rischio della co-interessenza del difensore può essere a scapito dell’assistito perché allettato più dalla ricerca del tornaconto personale che dalla tutela integrale dei diritti della parte.
Se il divieto dovesse essere derogabile, andrebbe comunque contenuto nei limiti delle tariffe di cui sopra, in una misura percentuale massima prefissata, credito incedibile, con forma scritta obbligatoria.
Anche la pubblicità, se non accompagnata da una chiara indicazione dei limiti di carattere generale, può essere più un elemento di distorsione che di orientamento nella scelta del consumatore, per cui dovrebbero valere alcune indicazioni di minima come il divieto di nominare i clienti, di promettere risultati, di vantare specializzazioni non possedute o accertate, con modalità che siano pertinenti allo svolgimento della professione.
La sponsorizzazione di concerti, l’elencazione dei clienti, la presenza costante sui giornali sono forme anomale a cui assistiamo da parte di molti studi legali che si assumono prestigiosi, in ciò non censurati né richiamati, a quanto risulta, da nessuno al rispetto delle regole deontologiche.
Non è questo il corretto utilizzo della forma pubblicitaria.
Anche l’abrogazione del divieto di fornire servizi professionali di tipo interdisciplinare trova il limite nella specificità della professione forense, legata comunque a un obbligo di rispetto del segreto professionale e di rapporto fiduciario con il cliente che mal si concilia con le altre professioni che questi obblighi non hanno.
Molte altre misure, poi, che riguardano la parte anti-elusione ed evasione si assommano alla distorsione sopra provocata dalla cosiddetta liberalizzazione del decreto Bersani, rendendo ancora più concreto il pericolo di mancata fruizione dei cittadini della giustizia, elemento caratterizzante il tasso di democraticità di un sistema politico.
In breve sintesi: l’obbligo del conto professionale, che già in precedenza esisteva per i contribuenti che avessero scelto la contabilità ordinaria, appare un grazioso omaggio al sistema bancario, questo sì non concorrenziale e privo di trasparenza; l’obbligo di non ricevere i pagamenti in contanti non ha alcun effetto pratico (non si diventa virtuosi per decreto) e danneggia la parte di popolazione meno abbiente o precaria (si pensi agli irregolari, ai clandestini ecc.) che non ha la possibilità di usufruire dei servizi bancari; l’aumento indiscriminato e non proporzionato dei contributi a carico delle parti, con l’estensione della solidarietà nel pagamento ai difensori, è disincentivante per l’assunzione della difesa di soggetti economicamente deboli e presenta anche dubbi di costituzionalità ove siano coinvolti diritti fondamentali.
Si potrebbe continuare: la diminuzione delle spese di giustizia, l’inefficienza dell’apparato giudiziario, eccetera, sono tutti aspetti che vedono l’avvocatura creditrice nei confronti dello Stato, incapace di dare una risposta rapida certa e ragionevole.
E allora domandiamo se veramente la liberalizzazione evocata sia tale; se veramente vi è un disegno riformatore serio del sistema giustizia; se veramente la risposta è finalizzata alla tutela dei consumatori.
Per avere una vera riforma dobbiamo modificare l’ordinamento professionale, creando dei meccanismi che rendano effettivi la verifica della professionalità, della qualità e del rispetto delle regole deontologiche da parte dei Consigli degli Ordini, che, abbandonata ogni velleità di rappresentanza politica e di confusione dei ruoli, devono rispondere in termini di efficienza all’interesse pubblico.
Vi è anche un grande spazio per le associazioni, specialistiche e non, che, attraverso percorsi formativi e di aggiornamento, possano certificare la qualità degli aderenti, e così legittimino, senza costituire cartello d’impresa, un sistema tariffario convenzionale collegato a una prestazione di accertata qualità con metodi trasparenti e di preordinata informazione del cliente.
Ai Consigli degli Ordini rimarrebbe il compito di valutare la correttezza e la concretezza delle prospettazioni delle associazioni accreditate, introducendo un elemento di controllo a monte in una concorrenza che avverrebbe poi a valle, nella pluralità delle offerte certificate in favore dei cittadini
Così si riuscirebbe a coniugare una spinta alla liberalizzazione senza sacrificare il diritto di difesa e di accesso alla Giustizia.
Come prima cosa è necessario cominciare da una ricognizione all’interno della professione e a riconoscere le specificità, ad esempio, tra la mera attività di consulenza e la difesa tecnica in giudizio in qualsiasi sede, pubblica o privata, e da qui elaborare il grado di tutela necessario nei singoli ambiti per la collettività, con una diversificazione delle regole sulla pubblicità, sulle tariffe, sulla deontologia, ecc.
Una riforma meditata, quindi, con l’invito rivolto anche ai sostenitori della liberalizzazione come panacea di tutti i mali di essere scevri da pregiudizi ideologici, ma accostarsi alle ragioni delle professioni, in primis quella forense, con disponibilità al dialogo e la sensibilità attenta ai valori costituzionali coinvolti.
Avv. Bruno Sazzini
Segretario Generale ANF

Nessun commento: